Intervista a Giulio De Paolis, il giovane regista romano, trapiantato a Gorizia, che al tema del confine sta dedicando il suo lavoro
a cura di Marco Rossi
«Ho sempre voluto fare il regista, da quando ero un bambino. Avevo poco più di tre anni quando mi portarono a vedere La Bella e la Bestia, nel dicembre ’92, e rimasi affascinato dalla magia del cinema. Poi crescendo frequentai l’Istituto Rossellini, che aveva avuto tra i suoi studenti un giovane Walter Veltroni. Ed è negli anni della scuola, mentre studiavo montaggio, che incontrai quello che considero il mio maestro, Eugenio Alabiso, che aveva montato film importanti, tra cui alcuni di Sergio Leone. È lui che mi ha insegnato che il montaggio è la vera scrittura di un film». Si presenta così Giulio De Paolis, quando gli chiediamo di raccontare com’è nata in lui la passione del cinema, e come si è formato. Cresciuto «a pane e feste dell’Unità, mio nonno Rocco era stato partigiano e comunista, mi portava sempre», come ama ripetere, De Paolis ha fatto della riflessione sul confine e sul suo impatto sulle vite delle persone un elemento centrale del suo lavoro di regista. Romano di nascita, ma legato a Gorizia dalla storia della sua famiglia, nel 2014 a venticinque anni si trasferisce a vivere a Nova Gorica per motivi di lavoro, scegliendo quindi di vivere in Slovenia, subito oltre il confine che divide dal 1947 questo territorio ma che, dal 2004, è solo sulla carta. O, come dice Giulio, solo nelle menti delle persone che vogliono vederlo. E proprio alla storia dei nonni è ispirato STOJ, il cortometraggio (in sloveno ed italiano) di esordio del 2019, presentato in anteprima in concorso al 22° Festival del Cinema Sloveno di Portorose nel settembre 2019, e dopo a Trieste, Belgrado e in altre rassegne.
STOJ è la storia dei miei nonni. Mia nonna era slovena, mio nonno paterno un carabiniere di Roma, si conobbero il 15 settembre 1947 mentre veniva chiuso il confine tra Italia e Jugoslavia; mia nonna abitava al Rafut, subito oltre il confine, e conobbe mio nonno cercando un passaggio nel confine: mio nonno, che stava di servizio a Vrtojba, si offrì di accompagnarla da una zia, a Gorizia. Da questa storia è nata l’ispirazione per STOJ.
Come ti sei trasferito a Gorizia, tu nato a cresciuto a Roma?
Nel 2014 lavoravo come montatore a Roma. Avevo perso il lavoro e trasferirmi fu, per me, una rinascita. Peraltro mi trasferii a Nova Gorica, non a Gorizia. Il mio primo impatto con Gorizia? Tremendo, era settembre 2014, i giorni di Gusti, e mi ricordo che per me che ero partito in maglietta e jeans da Roma arrivare qui in una città spettrale, con l’autunno ormai iniziato, fu un inizio non certo promettente. Mi dissi: “Sono finito in Transilvania!” Però mi trovo bene. A Nova Gorica, in particolare, si vive molto bene, la qualità dei servizi eccellente e si può dire che è una bella città europea e moderna. Gorizia, invece, dove vivo da alcuni mesi, sembra rimasta agli anni Settanta ma senza persone ed il commercio fiorente.
Qual è la tua percezione del confine?
Il confine non lo sento. Esiste solo se ce l’hai nella mente. Quando pensi che la tua cultura sia superiore, e che oltre il tuo “giardino” non ci sia niente, significa che sei tu ad avere un problema: perché gli esseri umani non sono fatti per stare in gabbia. Purtroppo per molti goriziani è sempre stato normale avere un “di qua” e un “di là”: una retorica fascista che ha danneggiato la gente ed il territorio ed ancora sopravvive in tantissime persone.
Il confine non esiste se non nelle teste di chi vuole che esista. E però pochi mesi dopo la presentazione di STOJ è arrivata la pandemia e ti sei trovato a girare in una piazza Transalpina divisa come non lo era da decenni. Con scene che credevamo relegate alla storia, di persone che si incontrano sui due lati di una rete. In quelle settimane cosa ne è nato artisticamente?
In realtà avevo iniziato a girare, già a dicembre 2019, un documentario su Gorizia e Nova Gorica. Poi è scoppiata la pandemia: un giorno mi avvisa Mateja Zorn, la produttrice del Kinoatelje, che stavano chiudendo il confine e mi sono subito precipitato in Transalpina, avevo abbastanza pellicola e ho iniziato subito a girare. Sono tornato in Transalpina quasi tutti i giorni, da marzo a giugno fin quando il confine tra Italia e Slovenia non è stato riaperto. Mi sono concentrato sugli esseri umani: non volevo fare un film politico, ma raccontare le vite delle persone, le loro emozioni e i loro gesti. È la politica, piuttosto, che è entrata violentemente nel lavoro che stavo facendo, mostrando di non capire le vite di quegli esseri umani che filmavo ogni giorno. Per me è stato un vero insegnamento. Alla fine di STOJ dicevo che i confini sono nelle nostre menti, ma la verità è che i governi, gli Stati, sono sempre lontanissimi dalle persone comuni, dalle loro vite. È il Potere che fa violenza sugli esseri umani.
Come vedi in futuro il rapporto tra Gorizia e Nova Gorica? Negli ultimi mesi si è parlato molto di un futuro da “Città unica”…
Se si continua come oggi, vedo ancora due città divise. Per raggiungere l’obiettivo di due città unite, serve un intervento molto più marcato. Ad esempio serve una toponomastica trilingue a Gorizia (italiano, sloveno e friulano), e dev’essere insegnato lo sloveno in tutte le scuole, non solo in quelle della minoranza. Ma vale lo stesso per Nova Gorica, anch’essa deve diventare una città bilingue, ufficialmente non lo è al contrario di Koper, anche se a Nova Gorica e dintorni vivono diversi italiani. Questo perché serve creare un ambiente in cui le persone comuni perdano quell’atteggiamento ambiguo verso ciò che c’è oltre il confine. E poi bisogna ricordare che entrambe le città sono marginali nei rispettivi Paesi. Anche perché a Gorizia non è mai stata sviluppata veramente un’industria, una base economica, mentre a sua volta Nova Gorica l’ha persa a vantaggio di Lubiana.
Come si inserisce nel tuo lavoro l’essere un regista di sinistra, militante, europeista, che vive in una terra segnata, o impreziosita, dall’esperienza del confine?
Quello che non voglio fare sono i film per le élites, perché le élites sono il potere e io non voglio fare film per il potere. Oggi, poi, non è facile fare film politici, non se ne fanno più: non ci sono registi come Francesco Rosi o Gillo Pontecorvo con il suo La Battaglia di Algeri. Non c’è nulla di tutto questo. Ma questo non significa che non si possa fare politica attraverso la pellicola: ma per farlo devo essere obiettivo, parlare di entrambe le parti e lasciar parlare i fatti e le immagini. Altrimenti non sarebbe politica ma propaganda. Questo vale anche per trattare argomenti che riguardano la storia di Gorizia e Nova Gorica. Devi farlo con obiettività perché quando narri, ad esempio, della guerra, e della violenza che porta la guerra, è chiaro che ti avventuri in un qualcosa dove non c’è stata alcuna dimensione razionale nell’agire delle persone, perché in quei momenti la vita delle persone era permeata dall’impulsività, dalla violenza, dalla sopravvivenza, dall’una e dall’altra parte. Però come regista tu lavori a posteriori, sai cos’è successo e ad esempio devi condannare il fascismo raccontando i fatti come sono avvenuti, con obiettività. Soprattutto perché il fascismo, per Gorizia e anche per Trieste, è stato una vera rovina in quanto ha diviso i popoli e relegato il territorio isontino giuliano nel dimenticatoio.
E quindi come si fa a trasmettere un messaggio politico al cinema senza fare propaganda?
Ci sono buoni esempi, ho citato Pontecorvo ma potrei citare anche Il ferroviere di Pietro Germi, che non a caso fu attaccato anche da sinistra perché Germi, socialdemocratico ed antifascista, aveva intuito la trasformazione della classe operaia, ed i critici schierati rimproveravano lui di ritrarre i suoi protagonisti come crumiri. Quello che fanno quei pochi registi di destra, invece, è fare cinema senza obiettività, insomma fanno operazioni di propaganda quando non si dedicano alle loro solite produzioni mainstream. E fanno cinema senza essere scomodi al Potere: un regista scomodo infatti non può mai essere di destra, non può non essere mainstream, perché la destra sta sempre con il Potere: anche se la sinistra da molti anni corre dietro a quest’ultimo, si è proprio dimenticata della classe operaia e di quelle emarginate. E’ così che nasce il populismo, quando abbandoni le classi più deboli, non le ascolti, non le tuteli, non le rappresenti.
Torniamo a Gorizia. Quale futuro vedi per la produzione cinematografica a Gorizia e in Friuli Venezia Giulia, magari anche pensando all’appuntamento con la Capitale europea della Cultura?
Bisogna fare in modo che eventi come l’Amidei e il Premio Bratina siano più conosciuti ancora, e poi bisogna creare un contesto aperto e disponibile verso le produzioni indipendenti, quelle che con pochi mezzi possono fare molto per far conoscere e promuovere il territorio e che possono trovare qui un ambiente in cui le Istituzioni e le persone sono disponibili a lavorare con i produttori. Il futuro del cinema è certamente nelle mani di un ragazzo che con pochi soldi di tasca propria, finalmente libero dalle logiche industriali, può creare un Capolavoro: e qui a Gorizia questo ragazzo potrebbe trovare ambiente e persone giuste. L’importante è che non ci sia burocrazia ma Istituzioni che si mettono a disposizione. A Gorizia, poi, è pieno di capannoni inutilizzati: potrebbero agevolmente diventare dei teatri di posa: per una produzione sarebbe fantastico perché significa abbattere i costi ed avere un ambiente di lavoro confortevole e formare sul territorio tecnici e maestranze che creano un indotto.
Pensi quindi che il cinema a Gorizia abbia un futuro?
Gorizia è un ambiente perfetto. Ci sono spazi e location bellissime e ci sono realtà come Kinoatelje: per chi, come me, crede nel cinema d’autore, lavorare con un’associazione culturale è l’ideale. Il cinema potrebbe essere davvero la salvezza di Gorizia. Per esempio il lavoro di Matteo Oleotto – io ho lavorato con lui per il montaggio del suo documentario Sopra le macerie – sta facendo conoscere il nostro territorio, sta facendo capire che sul cinema si può anche creare un’economia. La gente qui è disponibile, è attratta da quella “magia demoniaca” del cinema, che attrae chiunque, soprattutto se sei lontano dai grandi centri di produzione cinematografica, che in Italia significa essenzialmente Roma. Pensiamo che da Roma ci sono molte produzioni che girano ad esempio in Puglia, o in Basilicata a Matera.
E guarda caso anche Matera è stata Capitale europea della Cultura. Ma torniamo al tuo lavoro: raccontaci ancora qualcosa del film su cui stai lavorando…
ANDRA’ TUTTO BENE è un documentario in 16 millimetri, a colori e bianco e nero, nato per essere un documentario sulle due città è diventato uno sguardo sulle due città città divise per tre mesi nel 2020, a causa della chiusura del confine voluta dai Governi durante la pandemia. Ho voluto raccontare come questo evento ha sconvolto le vite delle persone di Gorizia e Nova Gorica. Lo vedrete nel 2022, prodotto da me e da Kinoatelje, con l’aiuto di Sara Terpin, Carlo Ghio, Luca Chinaglia ed interpretato da Kevin Korbi e proprio dagli abitanti delle due città.